A Tonara, ancora pochi artigiani, tra presse e crogioli incandescenti, producono ancora oggi i famosi campanacci sardi dal suono unico e irripetibile. I campanacci, infatti, che non hanno una destinazione propriamente musicale servono in primo luogo per segnalare ai pastori la presenza delle greggi ed allo stesso tempo, per evitarne la dispersione delle bestie. La produzione dei campanacci in latta, si deve ad un'antica cultura artigianale che ha trovato nel paese di Tonara il centro di maggiore sviluppo dove, ancora oggi, tre famiglie si dedicano a questa antica attività.

Si contano tre tipologie principali di campanacci:
cuartesa (di forma tonda, utilizzato soprattutto in Campidano),
narboliesa (di forma allungata e stretta)
cóssasa (di forma quadra e diffuso nel settentrione dell’Isola).

 
     

Gli elementi comuni sono:

  • L’occhiello per sospendere la campana al collare (arcu ’e susu o mániga),
  • L’anello interno che sostiene il battaglio (arcu ’e intru),
  • Il battaglio (limazzu).
  • Le graffette di rinforzo della saldatura (napos).

Oltre che per la forma, i campanacci vengono classificati anche in base alla dimensione che fa riferimento al loro prezzo di una volta:
pittiolu ’e tre,e battor, ’e chimbe soddos, detto anche chimina (campanaccio di tre, quattro, cinque soldi o cinquina).
Il tipo a forma tonda (cuartesa) viene invece classificato diversamente. Partendo dalle misure più grandi si ha:
su sonaggiu mannu,
su binnighinu (da quindici soldi),
su deghinu (da dieci soldi),
su settineddu o pittiolu ’e pezz’e mesu (da dieci soldi, o da un “reale” e mezzo), e così via fino al pittiolu ’e mesu pezza (da mezzo “reale”).

Le varie fasi che si vanno ad alternarsi per la costruzione di un campanaccio sono:

1. Taglio della lamiera, effettuato con le cesoie, chiamate"is serros”.

2. Battitura della lamiera sopra “s'incudinitta”, una piccola incudine per dare forma ai campanacci.

3. Rifinitura della convessità nella forma di ferro, attraverso l'utilizzo di martelli, quelli "po' pistare" e "po furriare".

4. Piegatura delle valve.

5. Apertura dei fori per l’inserimento de s’arcu ’e susu (sostegno per legare il campanaccio al collare degli animali).

6. Taglio de s’arcu ’e susu.

7. Inserimento de s’arcu ’e susu.

8. Inserimento de s’arcu ’e intru (sostegno del battaglio) fissato internamente ripiegando le estremità de s’arcu ’e susu.

9. Intonazione.

10. Inserimento del battaglio.

11. Prova dello strumento.

12. Sistemazione nel crogiuolo di grafite e riempimento
degli spazi residui con segatura.

13. Inserimento nei campanacci di un
pezzetto di lega metallica (ottone).

14. Copertura con un coperchio di latta.

15. Ulteriore copertura con argilla.

16. Inserimento nel forno di fusione.

17. Estrazione del crogiuolo dal forno.

18. Agitamento del crogiuolo per evitare che raffreddandosi le campane si attacchino tra loro.

 

19. Apertura del crogiuolo ed estrazione dei campanacci.

20. Sonazzos a lavorazione ultimata.

 
Il torrone, è un dolce ben conosciuto, che ormai, fa parte della tradizione sarda anche se di origini ancora incerte.
Molte persone infatti, sono convinte che il torrone sia un dolce tradizionale che esisteva a Tonara già prima del 1850 ma, ciò che invece appare certo è il fatto che con l'inizio dei lavori per la costruzione della ferrovia Cagliari-Sorgono, i tonaresi abbiano instaurato importanti rapporto alla fine del secolo scorso, con molti lavoratori toscani che, hanno lasciato molte tracce nell'economia del paese.

Fonti certe, dichiarano che alla fine dell'800, il torrone, veniva fabbricato dalla famiglia Carta che ne monopolizzò la produzione e la vendita per quasi un decennio. La famiglia infatti, producendo torrone più di quanto ne potesse vendere da sola, metteva a disposizione degli ambulanti l'eccedenza perchè, potessero vendere e far conoscere il dolce anche agli altri paesi della Sardegna.
A partire dal 1910, si iniziarono a contare circa una dozzina di uomini che viaggiavano a piedi o a cavallo per vendere il torrone. Negli anni 20, la produzione migliorò notevolmente e si arrivarono a contare quasi 115 ambulanti questo, fu possibile anche grazie all'introduzione del carrettone.

 
 

Il segreto per un ottimo Torrone, ha inizio con la preparazione del fuoco, esso infatti, dev'essere alimentato con rami secchi di agrifoglio, i quali, accendendosi facilmente, tengono la fiamma viva e non fanno fummo.
Il miele viene sciolto e fatto mescolato con l'albume dell'uovo in un grosso recipiente di rame (su keddàrgiu) a fuoco lento su un forno di mattoni (sa forredda).

Il rimescolamento, che viene fatto con un bastone di legno (sa mùrgia), continua per diverse ore finchè la massa diventa dura al contatto con l'acqua. Quando ha raggiunto la consistenza desiderata vi si aggiungono mandorle, noci e nocciole tostate, e si continua a mescolare per favorire l'uniformità della distribuzione. Quindi il miscuglio, viene tolto dal recipiente con un largo cucchiaio di legno (s'iscostadore) e sistemato a raffreddare nelle apposite scatole di legno.

Queste scatole, sono foderate di ostia e di carta trasparente (paperi de seda) affinché la pasta semi-liquida non si attacchi.
Si producono essenzialmente quattro tipi di torrone: il torrone di mandorle, noci, nocciole e noci con nocciole. Per produrre 100 chili di torrone, sono necessari 66 chili di miele, 33 chili di frutta secca e 150 albumi d'uovo.

   
               
   

Legname e carbone

E'proprio negli anni della costruzione della ferrovia, ultimata nel 1889, che i tonaresi cominciarono a far lievitare in modo sempre più consistente, il numero dei segantini e dei carbonai che nei primi anni del novecento fecero della produzione di legname e carbone una vera e propria industria.
I grandi alberi abbattuti che venivano sistemati su un cavalletto a tre piedi “sa draba” venivano poi trasformati in tavole e traverse.
Si lavorava sui tronchi con diversi tipi di seghe, ‘serra' e ‘serrones' e di scuri ‘segure' e squadrare' e ‘egure ‘e intaccare' mentre, per la produzione del carbone si preparavano piazzole “fogaggias” su cui venivano ammucchiata a cono la legna che, ricoperta di terra, doveva poi bruciare lentamente.
Per il carbone comune si utilizzava per lo più legna di leccio e roverella mentre, si faceva ricorso a quella del nocciolo per il carbone dolce, necessario per la polvere da sparo e infine, i ciocchi di erica per produrre quello destinato alle fucine dei fabbricanti di campanacci.